Con ricetta Salmì paleo di anatra e faraona allo spino nero, salsa di corniole e meline selvatiche (nell’articolo di prossima pubblicazione)
By Massimo Pandolfi, alias “Bistecca Mammuth” – Versione 28 Dicembre 2014
La descrizione gastronomica del Paleosalmì di anatra e faraona alle erbe odorose e ai dimenticati frutti di bosco viene presentata con una introduzione alla cucina “neanderthaliana”, vale a dire paleolitica, in occasione della bella cena preceduta da interessante Tavola Rotonda il 10 di Ottobre del 2014: “Paleo, una filosofia di vita” presso la sede di ValdericArte nei pressi di Lamoli splendidamente organizzata da Maria Stella Rossi.
Prima parte: introduzione alla “Paleocucina”
Mi piace accompagnare le mie note con questa illuminante vignetta sulle principali norme alimentari indispensabili alla “Paleodieta”…
INTRODUZIONE
La bistecca di Mammuth e la cucina “neandertaliana”
Il circolo “Neanderthal Pesaro, la Bistecca di Mammuth” nasce attorno alle lezioni sulla cucina antica e tradizionale dei miei Corsi tenuti presso l’Università dell’Età Libera di Pesaro e dal piacere di esplorare nella storia il comportamento e l’attività dell’uomo nelle sue azioni primarie e primitive che da sempre si sono raccolte attorno ad un’attività indispensabile e naturale per la vita di relazione e per la sopravvivenza: quella dell’alimentazione e del comportamento alimentare dell’uomo antico da decine di migliaia di anni all’oggi.
Spesso anche gli storici, figuriamoci i normali sapiens, non colgono il fatto semplice e meraviglioso che la storia dell’uomo dura da circa 220.000 anni. Un abisso. Anche per i tempi storici. Già parlare dei Piceni o degli scultori della Stele di Novilara (della necropoli sulle colline pesaresi) sembra difficoltosamente affondare in quel magma fluido e viscoso che è la storia antica dove tutto si fa nebuloso, difficile, ipotetico, astruso, possibile ma non certo. E lo studioso di capitelli e scritte romane inalbera volentieri la sua diffidenza. E la Stele di Novilara sembra abbia solo qualcosa in più di 2.600/2.800 anni.
Che dire degli insediamenti neolitici di Monte San Biagio sopra Fano? Qualche carbone annerito, pochi utensili, dai coltelli di selce ai raschiatoi, qualche delicata punta di freccia… 5-6.000 anni. Nulla. Niente di scritto, niente di certo, niente cultura e forse neanche religione. Quale motivo per ricordarne qualcosa? Eppure qui da noi, su queste colline che guardano il mare, dei popoli, della gente, ha vissuto in continuità per migliaia e migliaia di anni… E nel pozzo dell’era glaciale würmiana, diciottomila anni fa quando il freddo era intenso e si viveva a ridosso delle calotte glaciali, quando l’Adriatico era un mare d’erba solcato dal PaleoPo, c’era un senso nella vita degli italici pesaresi che pure anche allora certamente, in pochi, albergavano in freddi bivacchi su queste colline. Magari arrostendo una bisteccona di mammuth (o altro pachiderma di allora, in realtà qui per i veri mammuth, Mammuthus meridionalis, si era già un po’ troppo Sud) su una larga, pesante, cinerea lastra di arenaria ricavata dalle frane fangose del paleo promontorio del S. Bartolo e fatta arroventare caldissima sotto le braci di acero e di quercia.
La bistecca di mammuth
(o anche di uro se volete, il progenitore selvatico dei bovini domestici) è una cucina semplice e i gusti alimentari del sapiens sono inalterati da 200.000 anni (con qualche variazione minima a partire dal neolitico di 12.000 anni fa) e se a noi la fiorentina pare buona, pareva buona anche al progenitore di pelli vestito dell’ultimo glaciale, dell’interglaciale o delle savane africane ancora più lontane. E il fuoco è facile, gli ominidi africani lo conoscono da mezzo milione di anni o più.
Ho scelto l’emblematica “bistecca di mammuth” perché cuocere grandi bistecche su una larga pietra arroventata dalle braci è una maniera di cucinare, e preparare cibi gustosi e sani, che certamente risale ai primordi della memoria dell’uomo, gli antropologi pensano che l’uso del fuoco tra gli ominidi risalga ad almeno 800.000 anni fa. La cottura su pietra rovente è una maniera semplice ed efficace, qualche “odore” delle tante aromatiche della nostra flora facile a trovarsi ed usare, dalle foglie e bulbi di agli selvatici, al timo, alla maggiorana, alla menta, il rosmarino, l’alloro… ecc. ecc., tutte piante aromatiche che il nostro cuoco neanderthaliano (in realtà sapiens sapiens) benissimo conosceva e come noi apprezzava quale accompagnamento saporito alla rossa, morbida carne grigliata. Se la carne fosse stata un poco asciutta mettervi sotto qualche fettina fina di grasso, sempre tanto disponibile, e facilmente conservabile, dagli animali selvatici uccisi o trappolati: da quello tenero della lepre a quello forte e saporito del cinghiale…
Qualche forcella appuntita di duro legno di tasso o di corniolo per girarla una sola volta quando sotto era ben rosolata, una spruzzate del grossolano sale marino e via… pronta, calda, bollente, profumata, sugosa, da tagliare con gli affilatissimi coltelli di selce grigia del Monte Paganuccio e da gustare la sera in compagnia dell’intero clan, con donne, vecchi e bambini. In fondo una modalità di cottura che i nostri sapienti cuochi e chef d’oggi tuttora semplicemente ripetono da millenni.
E il pane? Dov’era?
Pur sapendo che i cereali (dei barbari Neolitici) non sono benvisti nell’attuale dieta “Paleo”, non si può non riconoscere la gradevole sensazione di un qualche carboidrato ben cotto ad accompagnare i bocconi di tenera carne “al sangue” della bisteccona. Insomma, il “pane” dov’era nel bivacco paleolitico?
Ad accompagnare le sugose bisteccone forse una schiacciata di piccoli semi di Setaria viridis e del grano locale, il Triticum (Aegilops) ovatum, delle nostre valli (ancora oggi in campagna chiamato “grano selvatico”), sminuzzati dalle donne nel mortaio di pietra, impastata con un finissimo battuto di lardo salato di cinghiale e fatta cuocere sulle pietre roventi. Un po’ come le odierne cresce e piadine…
E la selvatica Setaria viridis (vedi foto tanto comune nei nostri prati e anche nei coltivi tanto da essere considerata (a torto) “infestante” ha una sua storia antica tanto che verrà dai Neolitici dell’Asia orientale (i Cinesi) circa 6000 anni fa domesticata ed è ancor utilizzata con il nome commerciale di Miglio cinese, Setaria viridis italica.
Anche il sale, a pezzi grossi, da bistecca, era facile. Ricordate Rio Salso? A pochi chilometri lungo il Foglia? Per un attento osservatore delle risorse naturali disponibili non era certo difficile fare asciugare qualche polla di calma acqua salata e grattarne via i bianchi cristalli. Per una buona degustazione mancava solo il pepe che stava aspettando i trabaccoli della Serenissima … ma … diversi “falsi pepi” sono stati dalle nostre genti di campagna usati nel passato. A cominciare dai piccoli piccanti semini neri della Damigella di Damasco, la bellissima Nigella damascena “commensale” del grano all’Agnocasto (Vitex agnus castus), modesto alberello comunissimo anche oggi nelle zone umide di acqua dolce, stagni, lanche, margini di fiumi, dai bellissimi fiori viola e dai piccoli, secchi frutticini marrone della grandezza del vero pepe nero.
Cucina immaginaria o cucina reale? Non so, quel che è certo è che è una cucina possibile e molto plausibile, ben corroborata dai dati antropologici e paleontologici, basata sulle risorse alimentari, vegetali e animali presenti e disponibili nel postglaciale nel nostro territorio marchigiano. Certamente era anche una cucina buona anche per i gusti di oggi, forse di un piccolo gruppo di cacciatori-raccoglitori paleolitici accampato qui, dove giace la Pesaro odierna, alle falde delle colline del S. Bartolo, sulle sponde del paleo Foglia che si gettava lontano nel paleo Po al centro della pianura adriatica del glaciale würmiano di 18.000 anni fa.
Foto
1. Setaria viridis
2. Damigella di Damasco Nigella damascena
3. spiga e semini di Grano selvatico Triticum (Aegilops) ovatum
4. Grande sottotetto dell’arco naturale di Fondarca, Monte Nerone, sito con resti di bivacchi Paleo
Salmì paleo di anatra e faraona allo spino nero, salsa di corniole e fettine secche di meline selvatiche
Questa preparazione è basata sui prodotti e sapori della nostra terra usati per millenni ed ora largamente dimenticati dalla cucina (e dalla tradizione).
Qui si fa uso di alcune eccellenze alimentari dimenticate ma prodotte naturalmente dai nostri boschi e diffusi nel nostro ambiente naturale. Siamo nel pedappennino pesarese, con specie botaniche rigorosamente presenti anche 10.000 anni fa che un clan di cacciatori-raccoglitori paleolitici poteva tranquillamente raccogliere, conservare e cucinare, in un ambiente come quello per cui la ricetta è stata preparata: una valletta laterale del Metauro, all’altezza di Lamoli: Val d’Erica appunto e che le preparazioni odierne hanno del tutto perso, almeno fino alla metà del ‘Novecento.
Le azzurre bacche dello spino nero, le prugnole che maturano tardi, ai principi dell’inverno; le perine e le mele selvatiche, dure e invernali ma saporite con le carni e che danno al sugo del salmì una morbida dolcezza; le rosse corniole dal sapore deciso ormai perse nei boschi e nel ricordo.
Questi frutti, più che umili oggi sconosciuti anche alla cucina tradizionale, sono stati la base e il condimento, assieme all’azzurro ginepro e alle aranciate bacche (cinorrodi) invernali della rosa canina (private dei puntuti semini spinosi), di tanti piatti di carne della ristorazione povera e signorile, del passato anche recente, un tempo abbinate alla selvaggina ma anche alle carni tradizionalmente usate nelle campagne e nei paesi soprattutto all’interno del nostro Appennino insomma.
Queste carni, di selvaggina un tempo, oggi con i loro degni sostituti come la faraona, il pollo di fattoria, l’anatra e il piccione, erano disponibili in particolari occasioni a tutte le mense, basti ricordare il frusagliano, e siamo negli anni’40, sontuoso “Salmì del prete”, descritto dall’acuta penna di Fabio Tombari, anche lui tra le valli del Foglia e del Metauro. Piatto antico che ancora sopravvive nell’antica ristorazione popolare della vicina Apecchio e dintorni.
Carni vicarianti la selvaggina paleolitica reale e documentata, dalle coturnici delle falde del Nerone, alle collinari starne e pernici rosse, i germani reali dei guazzi fluviali, le lepri appenniniche, i piccioni selvatici delle tante caverne del massiccio calcareo (che certamente nidificavano e convivevano nei ripari dei clan di cacciatori-raccoglitori della Fondarca sul Nerone o della Grotta del Grano al Furlo, dove sono stati ritrovati resti di accampamenti del Mesolitico).
Dal Paleolitico al Novecento le carni disponibili come selvaggina erano ancora più o meno le stesse tanto che il salmì del prete prevedeva starne o coturnici, plebei galletti nostrani (ruspanti veri però), sontuose oche o anatre di corte, la sapida faraona, la lepre o il coniglio, le profumate di ginepro cesene (in autunno, in migrazione, questi tordi si nutrono di bacche di ginepro nelle macchie dei pascoli alti e s’insaporano… e i cacciatori locali ben lo sapevano) o i grassi piccioni di colombaia, tutti da passare ad una prima cottura lardellata allo spiedo e poi, già dopo questo passo, freddi e tagliati a pezzi, marinati nelle erbe odoroso a insaporire ancora (rosmarino, salvia, alloro, santoreggia montana, grani di pepe nero, qualche dente d’aglio schiacciato, qualche cucchiaio di aceto foss’anche di mele e aspro vino rosso di montagna…) e, dopo una buona giornata, via a riprendere cottura in arrosto segreto con abbondantissima ulteriore aggiunta di bacche di ginepro schiacciate… Queste le linee dell’antico salmì del prete discendente diretto, forse, dell’elaborata, lunga e saporita cucina naturale del cacciatore-raccoglitore del Paleolitico che prodotti saporiti e tempo ne aveva ben più di noi per stare attorno a fuochi, spiedi e pentole di terracotta nelle lunghe giornate autunnali al bivacco.
Le risultanze di questo prodotto sono eccezionali come sapore tondo e un po’ agrodolce, con la carne profumata, morbida e saporita in tutte le sue parti e che dolcemente, per le lunghe ripetute cotture, si stacca dalle ossa naturalmente e… si “scioglie in bocca”. Certo che … anche una polentina di Grano saraceno … J . Una particolare soddisfazione mia e dei “Neanderthaliani” locali quando, al termine della cena, Angelo Rossiello ha voluto, con l’assenso di tutti gli altri della “Paleodieta”, dichiarare questo salmì alle frutta selvatiche “Paleo piatto dell’anno”! Thanks!!!!
Visione di cena Paleo nella Valderica post glaciale
Sulla linea di una precedente ricetta, molto simile, di “Anatra e cappone ai frutti selvatici dei nostri boschi”, anatre e coturnici sono un esempio di cucina che proprio avrebbe potuto davvero essere stata fatta in una pentola di terracotta in un riparo autunnale della raccolta e boscosa Val d’Erica.
Gli ingredienti davvero antichi ma comuni prede dell’abbondante fauna che popolava i nostri monti e le valli dei fiumi: un’anatrella colta in uno dei prati allagati delle anse del Metauro, uno dei nostri galliformi del passato, così abbondanti un tempo oggi scomparsi per una caccia moderna sregolata: dalle coturnici delle praterie montane alle collinari starne e pernici rosse… qualche manciata delle rosse corniole (Cornus mas), colte in agosto e fatte seccare sulle calde pietre del bivacco, le piccole aspre e saporite prugnole (Prunus spinosa), blu brillanti di serica pruina, secche e fresche data la stagione, le dure gialle meline selvatiche (Malus sylvestris) che iniziano a farsi un po’ dolci, bulbetti o foglie degli di prato o agli ursini o il qui abbondante Allium triquetrum, un qualche grasso di cinghiale a sfrigolare nella pentola e … via a posare i pezzi dell’anatra con tutte le sue ragaglie, cuore, maghetto, larghi lembi di pelle con il suo giallo grasso saporito, le zampe sottili ma piene di sapore … e, forse, da pepe, i piccoli semi della Damigella di Damasco…
Flashback in bivacco Paleo. Cottura lenta con i tagli d’anatra a rosolare nel grasso accompagnati dai bulbi e foglie d’aglio, il mucchietto delle piccole sferiche prugne seguirà la prima rosolatura e verranno poi versate nel grasso sfrigolante. A parte nell’acqua tiepida del focolare già da diverse ore le rosse corniole sono rinvenute colorando il liquido di bruno sapore, già morbide andranno ad aggiungersi alla carne indorata dell’anatra, per sobbollire lentamente fino a renderla morbida e gustosa. Alle corniole fanno seguito le meline, alcune affettate, altre tagliate a pezzi, altre intere. A fine condimento ci sono piccoli semi di damascena e forse, se ci stanno, i semi del rosso papavero dei prati. Un coperchio di giunchi strettamente intrecciati mantiene il sapore e fa lentamene evaporare l’acqua di cottura… dopo circa due ore l’intingolo è rappreso, le carni sono tenere e si disfano nel sughetto, il profumo fa accorrere anche i bambini più lontani.
Beh, questa è la storia realisticamente immaginata, per noi il (necessario) adattamento degli ingredienti moderni della Paleo Cena in Val d’Erica del 10 Ottobre.