E’ ormai risaputo che i nutrizionisti ed educatori alimentari, che seguono un approccio evoluzionistico, perdono intere giornate a spiegare che “i carboidrati li mangiano”.
di Alessio: Evo Trainer
E’ ormai risaputo che i nutrizionisti ed educatori alimentari, che seguono un approccio evoluzionistico, perdono intere giornate a spiegare che “i carboidrati li mangiano”! Un brainwashing mediatico che, fin da piccoli inculca nelle menti, che i carboidrati sono la pasta; il pane e la pizza. Se non consumi almeno uno di questi cibi ad ogni pasto, non mangi carboidrati.
Ovviamente chi segue questo tipo di percorso, ed è minimamente informato, conosce benissimo la distinzione tra il parlare meramente di macronutrienti e parlare di cibo vero. Il cibo va considerato nel suo complesso e non in una singola parte sfruttandola a scopo di marketing.
Un nuovo concetto ci viene introdotto in questo articolo dal brillante Ian Spreadbury1
Egli mette in evidenza un altro aspetto relativo al discorso “carbo”, che va oltre all’indice e carico glicemico e perfino alla quantità totale giornaliera.
Nessuno nega che il carico glicemico giochi un ruolo molto importante. Infatti il superamento della massima quantità gestibile di zuccheri da parte del nostro corpo, porta inevitabilmente a resistenza insulinica e alla lunga e nefasta lista di malattie ad essa correlate.
Per Spreadbury: la densità di carboidrati presenti in un determinato cibo produce effetti metabolici diversi mediati dal microbiota intestinale.
In pratica è un altro modo di interpretare il concetto di “ carico glicemico”: qui viene presa in considerazione l’infiammazione come driver disruptivo del metabolismo.
Tra le altre cose il loop è bidirezionale, in quanto gli adipociti sono essi stessi secretori endocrini, instaurando un processo di infiammazione sistemica autoalimentato mediato da citochine proinfiammatorie.
Come si è arrivati a formulare questa ipotesi?
Alcune evidenze di tipo antropologico, dettate da studi su popolazioni che vivono ancora in maniera ancestrale (vedi Lindberg), hanno posto un grande interrogativo: come mai popolazioni come i Kitava, pur consumando fino al 70% dell’introito calorico giornaliero sotto forma di carboidrati (tuberi e frutta), è quasi totalmente esente dalle malattie della “civilizzazione” che affliggono la nostra società?
Se la quantità totale giornaliera del macronutriente incriminato, fosse l’unica variabile determinante, ci aspetteremmo di trovare obesità e malattie tra queste popolazioni.
I Kitava arrivano tranquillamente a consumare fino a più di 370 gr di carboidrati al giorno in media2; a noi basta molto meno per renderci grassi e malati.

In ogni caso occorre effettuare delle considerazioni a priori per avere una visione il più bilanciata possibile:
- La salute è determinata da un insieme di cofattori: dieta, stress, riposo, esercizio fisico e altri numerosi fattori ambientali. Quindi alcune popolazioni esaminate riescono a mantenere una salute relativamente “buona” (rispetto a noi “civilizzati”) pur allontanandosi leggermente dall’ottimo “ideale” in alcuni ambiti (vedi Maasai e Inuit).
- Le suddette popolazioni, essendo geograficamente isolate, potrebbero aver giovato in parte da una certa pressione selettiva. Questo potrebbe averli portati ad una maggiore tolleranza per quanto riguarda i carboidrati (analogamente agli Inuit che hanno avuto una certa selezione metabolica che favorisce l’utilizzo degli acidi grassi3).
- Occorre valutare non solo la quantità, ma anche il tipo di esercizio fisico. Per esempio il metabolismo anaerobico lattacido usa il glucosio come substrato energetico, pertanto richiede una maggiore quantità di carboidrati.
Una volta tenute presenti tutte le possibili variabili confondenti, si può valutare la teoria volta a fornire la spiegazione del paradosso:
L’ipotesi dell’infiammazione sistemica come cofattore scatenante è in primis supportata dal fatto che queste popolazioni, appena introducono una minima parte di cereali e prodotti raffinati, si ammalano velocemente. Molto più di noi, che avendo avuto migliaia di anni di tempo a disposizione, mostriamo qualche parziale “adattamento” ai cibi neolitici, seppur molto limitato.
I cibi “ancestrali”, come alcuni tuberi, frutta e verdura, immagazzinano i loro carboidrati in organelli come parte di cellule viventi delimitate da un muro di fibra. Questo tipo di immagazzinamento, permette una densità massima di carboidrati non fibrosi di circa il 23% sulla massa.
Spreadbury definisce questi carboidrati “cellulari“, al contrario di quelli “a-cellulari” rappresentati dai cereali e dai prodotti raffinati.
I carboidrati a-cellulari rappresentano qualcosa di completamente alieno che il nostro microbiota raramente ha avuto modo di incontrare durante la nostra co-evoluzione.
Stimolano la proliferazione di specie diverse da quelle che ci hanno accompagnato durante il nostro percorso evolutivo. Portano a pathways metabolici proinfiammatori che causano resistenza leptinica e insulinica.
Un microbiota proinfiammatorio è associato alla permeabilità intestinale e alla conseguente endotoxemia indotta dall’assorbimento nel torrente ematico dei PAMPs (pathogen-associated molecular patterns). Ciò include i tristemente “famosi” LPS (lipopolisaccaridi, componenti della parete cellulare dei batteri gram-negativi), che provocano la cascata di eventi nefasti che ben conosciamo, come obesità e diabete4.
Anche le malattie paradontali sono associate ad una disbiosi a livello orale, e vanno di pari passo con le altre infiammazioni sistemiche dell’organismo.
Ecco una rappresentazione grafica della densità di carboidrati di alcuni cibi:
Notiamo che anche i tanto “salutari” cereali integrali, oltre a contenere glutine ed antinutrienti, con tutti i problemi ad essi associati, presentano una densità di carboidrati a dir poco preoccupante.
Da aggiungere inoltre, che l’indice glicemico non rappresenta un fattore correlante significativo.
In conclusione, ancora una volta, l’importanza va data al cibo vero.
Dovremmo lasciar perdere i macronutrienti, specchietto per le allodole architettato dall’industria del cibo per distogliere l’attenzione dai problemi veri. Non dobbiamo consegnare la nostra salute nelle mani delle loro “marionette” propagandate come “professoroni”; ritenuti possessori della verità assoluta.
Va anche aggiunto che essendo un animale molto flessibile, l’uomo, è in grado di sopravvivere in un certo modo a tutti i cibi che Madre Natura offre. Pertanto questo non preclude il fatto che ci possa esistere una percentuale ottimale, in un grafico immaginario funzione di più variabili, per la scelta della quantità giornaliera di cibi glucidici. Inutile precisare che stiamo parlando di cibo vero: frutta, verdura e qualche tubero. Questa quantità è dettata da fattori dipendenti dall’ individualità (genetica e storia personale); dal tipo di attività fisica svolta (endurance, bodybuilding, oppure sport di potenza), ecc..
RIFERIMENTI:
- Comparison with ancestral diets suggests dense acellular carbs promote an inflammatory microbiota, and may be the primary dietary cause of leptin resistance and obesity (Spreadbury, 2012)
- http://donmatesz.blogspot.it/2010/03/paleo-diet-analysis-kitavan-analogue.html
- Matteo Fumagalli, Ida Moltke, Niels Grarup, Fernando Racimo, Peter Bjerregaard, Marit E. Jørgensen, Thorfinn S. Korneliussen, Pascale Gerbault, Line Skotte, Allan Linneberg, Cramer Christensen, Ivan Brandslund, Torben Jørgensen, Emilia Huerta-Sánchez, Erik B. Schmidt, Oluf Pedersen, Torben Hansen, Anders Albrechtsen, and Rasmus Nielsen. Greenlandic Inuit show genetic signatures of diet and climate adaptation. Science, 18 September 2015 DOI: 10.1126/science.aab2319
- http://diabetes.diabetesjournals.org/content/56/7/1761